Sabato 15 settembre 2018, alle ore 11, nella Sala del Castello di Voghera è stata inaugurata la Mostra Voghera Fotografia: Tra luoghi e persone, promossa e organizzata da Spazio53 di Arnaldo Calanca con la collaborazione dell’Assessore alla Cultura del Comune di Voghera, progetto grafico di Chiara Mussini e Direzione Scientifica a cura di Renzo Basora, Luca Cortese, Gigliola Foschi, Gianni Maffi e Pio Tarantini.

L’Esposizione oltre ai nomi dei fotografi facenti parte del Comitato Scientifico comprende i lavori di Enrico Bedolo, Mario Capriotti, Francesco Cito e Pio Meledandri.

Sentivo che in questo progetto gli amici Arnaldo Calanca e Pio Tarantini, avevano compiuto qualcosa di speciale che meritava la mia visita.

Le mie percezioni non sono state disattese tutt’altro: la location all’interno del Castello, il ritrovamento degli affreschi del Bramantino l’allestimento con strutture leggere erano cornice adeguata al lavoro di pregio dei fotografi che esponevano.

Il fotografo Pio Tarantini, parte del Comitato Scientifico, all’ inaugurazione, prende la parola per rendere noto al pubblico del collegamento tra la Mostra Voghera Fotografia e “Feeling Home”, allestita negli stessi spazi l’anno precedente, primigenia idea di Arnaldo Calanca che è stata volano di questo evento.

Riecheggiando frasi del nostro amato Gaber, Tarantini auspica un Nuovo Risorgimento per la Nazione, lavorando al meglio per una creazione progettuale ricca di senso che organizzi incontri capaci di affermare “verità”sul fare fotografia ed arte in generale.

Un intellettuale può solo suggerire indicazioni e raccontare aspetti del nostro Paese creando un’operatività ove ciascuno potrà fornire idee e riflessioni secondo il proprio potenziale.

Pio Tarantini è sagace interprete del suo territorio natio quello pugliese che ama dal profondo.

Ne sono testimonianza i suoi scatti che mostrano ad occhi attenti due punti di visione della sua Puglia, un aspetto più legato al folklore, alle tradizioni religiose e un aspetto più intimista.

Le immagini folkloriche puntano l’obiettivo sugli addobbi e le luci delle feste dunque su spazi abitati da figure umane che si mescolano, a quelle luci, in maniera più massiva o più rada.

Ma se osservi l’albero, con poche fronde, in mezzo a docce sparute di uno stabilimento smontato puoi cogliere un dire sommesso, un unico elemento che parla di natura e, fra mare e cielo, evoca vita. O soffermarti sulle atmosfere di una piazza vuota ove luci sottolineano l’ergersi di una palma mentre sul fondo, mura si allungano nelle linee curve di una facciata: qui natura si coniuga alla mano dell’uomo.

Pio Tarantini

Gianni Maffi con i suoi 7.458 km delinea coste dal Mar Ligure all’Adriatico. Sicuramente il mare è suo elemento ma, a ben guardare nei suoi scatti è visibile altro. Varietà argomenta il suo dire, narra di nubi fortemente chiaroscurate, un tuffo, dall’alto di una roccia di un uomo a Polignano a mare, o coglie, a Venezia, un fermo immagine di deliziose dame orientali lungo una fondamenta che guarda l’isola di S. Giorgio.

Fissa momenti, come la fotografia sa fare celando nell’uso dei contrasti, nelle composizioni un animo inquieto; attraverso varietà d’inquadratura mira ad appropriarsi di quei luoghi, del tempo affinchè nulla si perda della memoria.

Il mare in movimento, i foschi cieli, i muri, le strade sono attraversamenti, attraversamenti di stati d’animo che Gianni tiene con sé e che tracciano il suo percorso di vita, il suo vissuto.

Gianni Maffi

Enrico Bodolo ha tutt’altro linguaggio: ricerca pianure dell’Emilia, del lombardo da cui emergono, quasi sempre in piena centratura, caseggiati, pievi, tombe a tholos, superstiti strutture ad arco.

L’elemento centrale diviene l’attrattore visivo, ma le diverse composizioni si forgiano di piccoli elementi -quali fascine di legna, alberi, sterpi, terra dissodata, erba- che costituiscono per lo più il primo piano, l’orizzonte è ribassato per dare spazio al cielo che appare come immoto.

Tutto sembra fermo e silente tuttavia l’animo è tremulo; per quanto meditativi i suoi scatti, nei particolari, non nascondono il desiderio di comunicare un’idea di infinito, di oltre

Enrico Bodolo

Mario Capriotti, originario di Giulianova vive a Brindisi. Nella ricerca di luoghi, per l’esposizione di Voghera,è stato mosso dalla necessità di donare al pubblico un diario personale del terremoto dell’Aquila dell’anno 2009.

Il suo linguaggio suggerisce che non esiste fine senza un ritorno.

In ciascuno dei suoi paesaggi manifesta il segno di umane presenze.

La fotografia di Prata d’Ansidonia ci dice di “una verità umana”, presenta un punto di vista rialzato e in primo piano, erba mista a foglie, nel mezzo cavalli in legno colorato, giochi ed alberi sul fondo, stecchiti, contro poco cielo.

Un parlar sordo? No un parlar sottile che s’anima di colore, di gioco pur immoto.

Pochi segni dicono, il colore afferma che la vita non finisce ma si rinnova, come ancor si legge nella foto in cui, in disparte perché sull’estrema destra, è visibile la rete di una porta di pallone nell’immensità di un prato d’erba.

Le sue composizioni enucleano un parlare di vita che mai si spegne ma si trasforma.

Il terremoto viene cambiato da distruttivo a propositivo per un rinnovamento.

Un parlar silente, eppure ricco di significato è quello di Luca Cortese, all’estremo limite tra acqua e cielo. Qui il silenzio si fa più fitto, rimangono, come in sospensione, racemi.

Gioca con l’acqua, l’acqua lagunare di un percorso tra Chioggia e Marghera in cui pare perdersi, disconoscersi. Forse questo è “il gioco”perdersi, perdere connotati spazio temporali e dissolversi in un apparente vuoto. Solo in quel vuoto può esserci ritrovamento.

Mario Capriotti

Luca Cortese potrebbe, a primo esperimento essersi spaventato poi, catturato da quel vuoto, si è consentito il gioco.

Così ha preso vita il suo delineare grafemi sull’acqua, con segni rettilinei, romboidali e le connessioni lo hanno reso consapevole della scarsa importanza della forma, in confronto al gioco.

Alcune immagini concretizzano forme come in “Bricola Isola”,dove tutto appare assorto, sospeso come in un sogno.

Ma non è sogno, è l’invisibile che prende sostanza, compone lirismi librandosi nell’infinito.

Luca Cortese

Pio Meledandri punta l’ obiettivo sulle donne. Il suo progetto si costituisce di ritratti, ritratti appunto di donne amiche a cui si è rivolto per comporre il lavoro.

Gli sfondi su cui appaiono i volti sono azzurri, ma il colore, sbiadisce o rinforza a seconda dell’invito che il fotografo propone allo spettatore.

Infatti, allorquando i fondali divengono cupi, il parlare di Pio si fa incisivo perché il trucco, dice di abusi.

Meledandri, nell’ideare questo progetto, lavora per una conoscenza più approfondita della donna, in quanto la violenza sottolineata dai volti truccati evoca il coraggio, delle figure femminili di manifestare la propria sofferenza . Si parte dal dato fisiognomico reale per andare verso un’idea di maschera. Attraverso quest’ultima riflette e argomenta a sé stesso che mai nulla è esattamente uguale a ciò che vediamo,perché dietro, specie ad un volto, si cela un’identità che è stratigrafica e solo il tempo svela.

Pio Meladendri

Francesco Cito napoletano di nascita con il bianco nero delle sue immagini racconta miseria e nobiltà della sua città. Le fotografie, nella selezione della loro sequenza, catturano il senso più profondo di una napoletanità di quartiere che meglio di ogni altra rende esplicita la “veridicità” del popolo napoletano.

Il matrimonio delle popolane viene fotografato con la sua scenografia, con una coreografia che denuncia il tentativo di costruirsi, almeno per un giorno, una vita principesca.

Pur di rendere “quel giorno”unico nella memoria i matrimoni del popolo napoletano, si pensi all’abito di 21 kg sorretto da sette damigelle, trasformano, in una sorta di set cinematografico, i monumenti più spettacolari della città. Tale realtà è osservabile anche nell’inquadratura che mostra i due sposi seduti all’interno della Galleria Principe Umberto, dove il bianco nero degli abiti viene potenziato dalle iridescenze delle luci che filtrano dai vetri e dalle bicromie del pavimento. Cito ha la capacità di entrare nelle pieghe del sentire napoletano apparendo talvolta ironico ma solo per quelli che non conoscono il sentimento collettivo dei napoletani.

Avendo vissuto con forza l’emozione e la sinergia degli organizzatori e dei fotografi-poeti sono stata investita già nell’immediato dell’inaugurazione dall’idea che questo lavoro che si son proposti su “Luoghi e persone” li ha coinvolti a tal punto da aver creato, forse inconsapevolmente, un comune “fil rouge”.

Camminando nei corridoi del Castello Visconteo e osservando i racconti dei singoli autori mi è apparso chiaro che Voghera Fotografia ha davvero profuso grande sensibilità, nel tessere le fila, come diceva in ingresso Pio Tarantini, di un nuovo Risorgimento fotografico.  Il fil rouge che io vedo nei loro lavori emerge dal fatto che pianure, mari, piazze vuote,acqua, cavalli a dondolo, volti, matrimoni, esprimono un orizzonte nuovo, largo, immenso, dove si libra il desiderio comune di sognare una Nazione che sappia tornare ad essere un paese propositivo che rende visibili sogni trasformandoli in realtà.

Francesco Cito

Caterina De Fusco